Il GIOCO DELL’ANGELO di Carlos Ruiz Zafòn

Reduce dal bell’incontro letterario con Ornella Spagnulo, dove abbiamo parlato del suo libro e di tanto altro, oggi scrivo qualcosa di questo autore. Di Zafòn lessi tempo fa ‘L’Ombra del Vento’. Non ricordo davvero nulla di quel libro, tranne che era scritto benissimo e rimasi sorpreso dagli ingranaggi narrativi, ben calibrati, dove tutto si risolveva in modo credibile quando il lettore abbandonava l’idea che ciò fosse possibile. Non ricordo niente, però rammento che il romanzo mi diede quel piacere che si prova di fronte alle bellezze architettoniche, a certi azzardi mirabilmente risolti, come per esempio nella costruenda ‘Sagrada Famìlia’ della sua cara Barcellona.
‘Il Gioco dell’Angelo’, come il libro precedente, è scritto in modo eccellente e ha parecchie pagine che rimangono impresse nel lettore, passaggi ispirati, suggestivi, belli. Purtroppo però per il suo bravo e fortunato-sfortunato autore, scomparso precocemente, la chiave di volta si trova a pagina 410 dell’edizione bestseller Mondadori del 2016-2020. Cito: ‘Quando un uomo perde la rotta della propria vita e sente che la morte ha assegnato un prezzo alla sua anima, secondo la leggenda, se trova un’anima pura disposta a sacrificarsi per lui, occultando il suo cuore nero, la morte, cieca, girerà al largo’. L’idea che tutto ciò che accade e muove la narrazione abbia il suo perno nell’avvocato Diego Marlasca che sacrifica anime pure in cambio dell’eterna giovinezza, e che oscuri e metafisici personaggi come l’editore Andreas Corelli vadano a caccia di anime nere o si prestino al gioco, è abbastanza forzata, anche se qui i protagonisti possono essere letti in chiave simbolica e metafisica. Il protagonista David Martìn, che lavora al giornale e riesce infine a pubblicare libri, non è certo un’anima dannata: carattere forse per certi versi difficile, umbratile, vagamente misantropo, ma è una persona tutto sommato a modo. Un personaggio talvolta morale o amorale, ma non immorale. Lo scrivo perché è possibile anche leggere il suo personaggio parallelamente alla vita di Diego Marlasca, come sua corrispondenza. Né l’accordo di Martìn con Andreas Corelli (l’editore) ha i presupposti di una specie di patto con il diavolo, e poi cosa c’entra l’avvocato Diego Marlasca con questa storia di David Martìn? Semplice, cerca anime da consegnare al suo altare sacrificale, mah. Lui (Diego) – e il lettore lo scoprirà – è vivo e vegeto: in realtà è l’ex poliziotto Ricardo Salvador, che si occupò delle indagini sulla morte di Diego Marlasca, e che invece altri non è che appunto Diego Marlasca stesso. Salvador avrebbe la stessa età di Diego Marlasca quando quest’ultimo morì, ma siccome in realtà non tirò le cuoie (il vero ex poliziotto sì), è facile sovrapporre l’età dei due, e quindi agli occhi di Martin è solo il poliziotto Ricardo Salvador. In poche parole Diego Marlasca è una specie di vampiro di anime per eludere l’incontro con la morte, un po’ come i libri, che prendono e danno vita a chi li legge. In questo caso si tratta di un vampirismo positivo, ma l’analogia è sviluppata in modo intrigante da Zafòn.
Nonostante tutto non abbiamo il sentore che Diego Marlasca sia tutto questo demonio, anzi si rivolge alla Strega del Sorromostro sconvolto anche per la perdita del figlio, e la scelta di abbandonare le certezze e le iniquità del suo prestigioso studio legale denota un’inquietudine diversa rispetto a luciferine certezze. Zafòn insiste nel presentarci una Barcellona come se fosse Londra o Parigi del secolo scorso, mentre la città catalana e spagnola ha atmosfere sì gotiche, ma che si intrecciano in una complessità diversa da visioni stile Gobbo di Notre Dame in chiave dark. Zafòn ama Barcellona come se si trattasse dei sobborghi di Parigi. Alla fine l’amata Cristina – che amava anch’ella Martìn – si reincarna in una bambina, e questo genera un’ellissi narrativa con una misteriosa foto. ‘Il Gioco dell’Angelo’ si presta anche a sospettare di Martìn come di un protagonista delittuoso: un ammiccamento che si fa al lettore, in cui un dubbio permane. Il romanzo viene proposto come un’opera dagli incastri ‘ragionevolmente certi’, che invece nonostante le molte pagine illuminate si disperde nelle care nebbie di Barcellona, però mi ricorderò meglio di questo libro che del primo. I romanzi per essere ricordati talvolta devono avere dei difetti, ed è il caso di questo feuilleton. Come diceva Truffaut, i capolavori devono avere difetti per respirare, ma – aggiungo io – non di rado non solo i capolavori.

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Gino Pitaro

Nasce a Vibo Valentia e ha svolto attività di redattore, articolista freelance e di documentarista. Nel 2011 il suo esordio come autore di romanzi con "I giorni dei giovani leoni" (Arduino Sacco Editore), poi per la Ensemble pubblica rispettivamente nel 2013 e 2015 "Babelfish, racconti dall'Era dell'Acquario" e "Benzine", vincendo numerosi premi letterari. "La Vita Attesa" è il romanzo per Golem Edizioni pubblicato nel 2019. Vive in provincia di Roma.