Lo Sport, un’occasione per crescere. La finale Roma – Liverpool del 1984

La finale Roma Liverpool del 1984 fu per me una partita importante. Segnò una linea di demarcazione incerta tra l’infanzia e l’adolescenza. Quel 30 maggio simbolicamente rappresenta la porta scorrevole che mi introdusse nel mondo scivoloso di chi si lascia alle spalle i giochi, gli impegni e i lazzi del periodo delle scuole medie, per introdursi in un universo fatto di nuovi cicli di studi, passioni e muretti. La prima estate ibrida. Di fatto quella partita coincise brutalmente con l’inizio della fine degli echi dell’infanzia e lo fece lasciando quesiti insoluti e ponendone nuovi. Rappresentò una storica frattura nel tifo giallorosso, metafora delle discrasie personali. La Roma non era solo ‘maggica’, ma la crescita del club metteva in rilievo tutte le sue inadeguatezze e i problemi storici ad essa pertinenti. Questi Lupi si esaltavano nelle vittorie e si deprimevano nelle sconfitte, consideravano con troppa disinvoltura le squadre che lottano per non retrocedere o di obiettivi inferiori ‘piccole’, quando si sa che il livello professionale e atletico è altissimo in serie A, dato che lo era perfino in C2, da qui le famose ‘passeggiate di salute’ nei campi da gioco altrui o nel proprio, concluse con sonore sconfitte o pareggi, pure in partite decisive. E poi l’eccessiva ‘umoralità’ dei tifosi, l’influenza inopportuna e talvolta minacciosa di frange del tifo. Simbolo di questa rottura interna divenne Agostino Di Bartolomei, ‘core de Roma’, che si accasò al Milan e mai più si riconciliò con l’ambiente della società e del tifo in vita. Atleta e uomo serio e rigoroso. La Roma con una mentalità da grande club di serie B vinceva la Coppa Italia, reduce di volta in volta di tre scudetti, quello di Mussolini, quello dell’invenzione del gioco a zona di Liedholm e quello della dittatura interna imposta da Capello, ‘capillare’ sul controllo della vita dei giocatori. Tuttavia in questi 34 anni la Roma a livello atletico, medico e sportivo è divenuta una realtà di primissimo piano, pur permanendo in tutto o in parte i tipi di problemi di cui sopra.
Mi piace pensare che questa semifinale possa rappresentare uno scatto di maturità, un volano decisivo verso nuovi obiettivi, in una nuova dimensione che veda anche nello stadio di Tor di Valle il coronamento di essi. Una metafora, dato che vita e sport spesso vanno a braccetto, e il secondo ne spiega costumi ed evoluzioni quando non cade nella retorica trionfale. La vittoria di una squadra di calcio non rappresenta il progresso di una comunità, ma ne spiega o favorisce determinati aspetti o dinamiche.

 

 

Gino Pitaro

Nasce a Vibo Valentia e ha svolto attività di redattore, articolista freelance e di documentarista. Nel 2011 il suo esordio come autore di romanzi con "I giorni dei giovani leoni" (Arduino Sacco Editore), poi per la Ensemble pubblica rispettivamente nel 2013 e 2015 "Babelfish, racconti dall'Era dell'Acquario" e "Benzine", vincendo numerosi premi letterari. "La Vita Attesa" è il romanzo per Golem Edizioni pubblicato nel 2019. Vive in provincia di Roma.